L’ULTIMO MURO DI NAPOLI: “Il muro finanziere”

A leggere la cronaca, Napoli è la città del contrabbando. Dagli anni dell’occupazione americana durante l’ultima guerra con lo spaccio delle sigarette fino alle cronache odierne di traffici illeciti, Napoli lega tragicamente il suo nome alle piazze del mercato nero. Ma Napoli è anche la città della lotta al contrabbando, che si svolge con lo spiegamento delle forze dell’ordine e sensibilizzando l’opinione pubblica. Che altro fare? Oggi nessuno ci pensa, ma in un passato non troppo remoto si pensò addirittura di circondare Napoli da tutti i lati con un muro. Ci pensarono i Borbone, erigendo una muraglia di tufo lunga più di venti chilometri e larga mezzo metro, a forma di arco ad abbracciare Napoli da oriente a occidente, con lo scopo di arginare il contrabbando e riscuotere i dazi sulle merci in entrata e uscita dalla Capitale. Idealmente era un grande strumento per la regolazione del mercato e delle finanze: passò alla storia come muro finanziere.

LE ULTIME MURA DI NAPOLI

(La Tavola Strozzi rappresenta la Napoli aragonese negli anni intorno al 1473. Mostra chiaramente l’aspetto munito della città al tempo del suo massimo vigore in termini di impresa fortificata)

Non era certo la prima volta che Napoli fu cinta dalle mura: dagli Angioini agli Aragonesi fino al Viceregno la città apparve sempre minacciosamente chiusa da una cortina di mura intervallata da torri di guardia e porte monumentali. Una vera e propria fortezza marittima in grado di scoraggiare l’assalitore, da terra e da mare col suo aspetto munito. Pensiamo che nella sua storia Napoli arrivò a contare fino a 29 torri, come indicato da Bartolomeo Capasso in Le denominazioni delle torri di Napoli (Napoli Nobilissima, 1892), mentre le porte arrivarono a 26, oggi quasi tutte abbattute, come ricorda il sito Storie di Napoli. Le mura invece andarono allargandosi con le dominazioni, per cui si ebbe la massima estensione in età vicereale, dopodiché, sotto i Borbone e durante il Decennio francese, vennero in buona parte abbattute per allargare il perimetro urbano. Paradossalmente, però, fu proprio nel primo trentennio dell’Ottocento, successivamente al governo di Murat e durante la restaurata monarchia borbonica, che si decise l’erezione di un muro, non più a scopi difensivi e militari, ma per ragioni economiche e finanziarie. Era l’ultimo muro di Napoli.

PER COLPA DI CHI?

Ma cosa era successo perché si sentisse l’esigenza di erigere una muraglia al contrabbando? Bisogna appunto ritornare al periodo in cui Napoleone spadroneggiava in Europa, fondando in Italia le cosiddette “repubbliche sorelle”, tra cui la Repubblica Napoletana. Tutto cominciò dalla rivalità tra Francia e Regno Unito, l’una dominatrice delle terre, l’altra dominatrice sulle acque. Per colpire il suo nemico, Napoleone impose il blocco continentale, cioè nessun paese doveva commerciare con le navi inglesi. Questa manovra ebbe una ricaduta drammatica e imprevista sul Regno di Napoli: il proliferare del contrabbando. In questo modo la popolazione aggirava, in modo illegale e violento, le misure restrittive imposte dallo stato: così si diffuse il contrabbando illegale delle merci che entravano e uscivano dalla città sotto l’occhio semichiuso di qualche ufficiale corrotto. Ma se al tempo napoleonico la giustizia chiudeva un occhio, col ritorno dei Borbone a Napoli la piaga era ormai dilagante e occorreva porle un argine. E così accadde. 

(Il re Francesco I di Borbone autorizzò nel 1826 la costruzione del “muro finanziere” col duplice scopo di controllare l’entrata e uscita delle merci e incassare gli introiti del loro passaggio)

Sconfitto Napoleone nella battaglia di Waterloo nel 1815, la monarchia francese si ritirò dall’Italia. Restaurati i sovrani col Congresso di Vienna, re Ferdinando IV, scortato dagli inglesi, rioccupò il trono napoletano (ritornando dal suo esilio a Palermo): quindi riunì le due corone di Napoli e Sicilia nel “Regno delle due Sicilie” governando col nuovo tutolo di Ferdinando I (mentre in Sicilia portava il titolo di Ferdinando III). Fu proprio il “re lazzarone” a far approvare l’opera nel 1820, senonché i moti carbonari del 1820-21 assorbirono le energie della corona. Quando Ferdinando si dimise dopo ben cinquantasette anni di regno (tra i più lunghi della storia), gli successe il figlio, il mite Francesco I, il quale sembrava più orientato a studiare botanica e a passeggiare nel grande Orto Botanico di via Foria che a guidare un regno scosso da tanti avvenimenti. E quindi, cosa fare per annientare il contrabbando napoletano?

MEN AT WORK

(Il tratto di via Gabrielle Jannelli al Vomero costeggiato dal “muro finanziere”, qui in Google Earth)

Ogni dinastia regnante ha due grandi bracci armati: l’esercito per abbattere l’orgoglio del nemico e gli architetti per edificarsi monumenti gloriosi. Sin dal capostipite Carlo III, i Borbone regnarono anche attraverso i propri architetti e ingegneri, basti ricordare il grande Ferdinando Fuga, realizzatore di tre colossi partenopei: l’Albergo dei poveri, il cimitero delle 366 fosse e i Granili. Paradossalmente, però, tali opere faraoniche si risolsero in clamorosi insuccessi, portando solo all’esborso di enormi cifre per l’erario pubblico. Accogliere il povero, seppellire il povero e nutrire la popolazione (in larga parte povera) furono le tre ispirazioni di quei magnifici progetti, successivamente però degenerati: l’Albergo divenne il “serraglio”, come ancora oggi lo chiamano i vecchi di Napoli; il cimitero fu totalmente abbandonato, sebbene l’idea di seppellire tutti i morti di una giornata nella stessa fossa, evitando l’alienazione delle fosse comuni, costituisse un atto di pietà unica verso i poveri e verso chi pregava per loro; i Granili, invece, divennero il gigantesco falansterio della periferia orientale, tra i luoghi più inumani della città. Simile sorte capitò al muro finanziere, la cui costruzione si avviò nel 1826 sotto il regno di Francesco I di Borbone: idealmente doveva contenere il contrabbando e rimpinguare le casse statali con l’adozione di una politica protezionistica che favorisse il prodotto interno; successivamente, però, l’idea risultò irrealizzabile, il muro decadde e oggi se ne avvistano qua e là alcuni tratti e gli edifici doganali versano per lo più in rovina. Il muro finanziere fu un’opera politica, economica e architettonica: fu voluto infatti dal primo ministro Luigi de’ Medici di Ottajano, approvato dal direttore generale dei dazi Giuseppe de Turris e progettato dall’architetto Stefano Gasse. Quest’ultimo fu tra i principali architetti del Regno, progettando l’Osservatorio astronomico al Moiariello, il Palazzo san Giacomo attuale sede del Municipio e la Loggetta a mare dove un tempo vi era l’isolotto di san Leonardo e oggi c’è la rotonda Diaz. Il progetto, avviato nel 1826, terminò nel 1830 e comportò per il Regno la spesa di trecentomila ducati. Napoli era pronta a essere cinta di mura un’altra volta.

LA MURAGLIA CINESE NAPOLETANA

(Il perimetro del “muro finanziere” andava da est a ovest abbracciando l’area settentrionale, in questo modo includendo aree prima extraurbane. La mappa proviene dal sito vesuviolive.it)

Lungo venti chilometri, con circa trenta postazioni di guardia e dodici edifici di dogana, fu il più ampio muro di cinta della storia di Napoli, andando ad abbracciare territori e casali un tempo extraurbani e che proprio grazie al muro rientrarono poi nel circuito cittadino. La sua estensione è testimoniata da uno storico che visse appieno l’epoca borbonica:

“La sua diramazione, a cominciare dal posto al Ponte della Maddalena, fino al posto di Sementina sulla collina di Posilipo, è da circa miglia undici” (Francesco Ceva Grimaldi, Della città di Napoli dal tempo della sua fondazione sino al presente, 1857).

Sempre dal Ceva Grimaldi apprendiamo l’estensione del muro attraverso la collocazione delle sue stazioni di dogana. Erano dodici, tra cui la dogana di Poggioreale, di Capodichino, di Capodimonte, di Piedigrotta, di Posillipo, dei Granili. Alcuni posti di guardia includevano aree oggi semisconosciute, come il posto del Pascone e del Pasconcello, il posto di Gassi e il posto Ottangolare. Altre aree suonano invece familiari perché ancora esistenti, come il posto di san Rocco e la dogana dello Scudillo. Il muro era geograficamente compreso tra la dogana dei Granili a oriente e il posto di Sementina a occidente, vale a dire dal ponte della Maddalena a largo Sermoneta a Posillipo. A settentrione toccava le borgate di Capodimonte e bordeggiava il vallone di san Rocco e Bellaria adattando il suo cammino alla serie di rilievi e burroni tufacei dell’area nord. Merito del muro fu l’inclusione nella Capitale di alcuni casali extraurbani, come Poggioreale, i Ponti Rossi e Capodichino. Dei dodici posti di dogana oggi ne restano solamente quattro: la dogana dei Granili, la dogana di Poggioreale, la dogana di Capodichino e la dogana di Capodimonte.

COSA RESTA?

Gli uffici di dogana avevano l’aspetto di templi in stile dorico, progettati da Stefano Gasse per dare al muro finanziere un tocco di eleganza e di monumentalità. Oggi alcune versano in forte degrado, come la dogana del ponte dei Granili ridotta a un mezzo rudere e punto di raccolta dell’immondizia. 

(La facciata della dogana dei Granili mostra il degrado odierno della stazione daziaria di Napoli est. L’edificio ancora mostra le sue quattro colonne in stile dorico, stile prescelto dal Gasse per la sua sobria e monumentale eleganza)

In simili degradanti condizioni è anche la seconda dogana superstite, la dogana di Poggioreale, presso il cimitero.

(La dogana di Poggioreale in veduta aerea con Google Earth. Il suo stato conservativo è leggermente migliore della dogana di ponte dei Granili)

La dogana di Capodichino, viceversa, versa in ottimo stato a seguito del suo riutilizzo come sede del comando dei vigili urbani; la sua facciata preserva l’originaria eleganza con le sue quattro colonne in stile ionico. A fianco ad essa un tempo sorgeva l’elegante e pittoresco edificio della “Rotonda”, originariamente sede del comando dei vigili urbani. Aveva la forma di un tempio rotondo circondato da colonne doriche. Fu però abbattuto nel 1927 per far posto alla traccia dei binari del tram.

(Il dazio di Capodichino in piazza Giuseppe di Vittorio è stato recuperato e oggi è la stazione di dogana meglio conservata. E’ circondata da otto obelischi, eretti successivamente nel 1848)

Un enigmatico destino è invece toccato alla quarta dogana superstite, la dogana di Capodimonte, trasformata in palazzina residenziale e non facilmente distinguibile dagli altri edifici tra via Miano e il dirupo di Bellaria.

(La dogana di Capodimonte è sopravvissuta sotto forma di palazzina abitativa, affacciata da un lato su via Miano e dall’altro lato su Discesa Bellaria davanti alla porta Miano del bosco di Capodimonte)

Oltre alle dogane restano alcuni tratti del muro finanziere presso il dazio di Bellaria a Capodimonte, ai Colli Aminei presso la stazione metropolitana o all’Arenella per la via Antiniana alle “case puntellate”. Proprio qui compare una targa che ricorda la presenza del muro finanziere, con la scritta “Qui si paga per gli regj censali“, a indicare la presenza di una stazione daziaria dove i commercianti avrebbero pagato il “fiorino” per entrare e uscire dalla città. Era la dogana di Antignano.

(Targa che ricorda la presenza di una stazione doganale all’Arenella nella zona delle “case puntellate”, uno dei punti di passaggio del muro finanziere)

Seguire il corso del muro finanziere napoletano – in alcuni tratti lunghi e ben conservati come al Vomero in via Gabriele Jannelli o in alcuni tratti brevi e semidistrutti come a Capodimonte sul vallone san Rocco – vuol dire seguire l’impossibile utopia di legalità della Napoli borbonica alle prese con una piaga oggi ancora attivissima, da cui traiamo, in fondo, un solo utile insegnamento: che i muri, prima o poi, vengon distrutti.

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